foto di pietro baroni
centralini è grandi artisti e interviste piccolissime. esatto: una scusa per parlare a telefono con le autrici e gli autori dei dischi che mi piacciono. e il giovane holden muto.
dieci anni fa giuseppe peveri, in arte dente, pubblicava un 7'' in edizione limitata di una canzone brevissima e preziosa: cuore di pietra. nei 500 cofanetti numerati, oltre al 45 giri con otto versioni diverse del brano, c'erano anche dieci illustrazioni a tema. me lo ricordo bene perché una di quelle copie - la 301 - finimmo per comprarla in colletta io e due miei cari amici. non ricordo bene invece da dove spuntò fuori quest'idea folle e romantica dell'acquisto in comune. l'ipotesi più plausibile è che al tempo i pochi soldi a disposizione finivano quasi tutti in partite di calcetto e forse la comproprietà ci sembrò il miglior investimento per non rinunciare a quel grande disco con testo piccolissimo.
più o meno nel periodo in cui pubblicava cuore di pietra, dente era al lavoro anche su un'altra canzone, che però rimarrà a lungo nel cassetto. la riprende in mano dopo un decennio e gli cambia il ritornello, in un'operazione che, come riflette l'autore, è una specie di dialogo con il se stesso del passato: una canzone che il dente di oggi ha di fatto scritto con il dente di dieci anni fa. non poteva che chiamarsi così allora, dieci anni fa, il brano d'apertura di "hotel souvenir", il nuovo disco del cantautore pubblicato lo scorso aprile, in cui il tempo gioca un ruolo fondamentale.
dopo aver dedicato la prima puntata di centralini al "mystic motel" di laila al habash, sono perciò rimasto in ambito di alloggi temporanei e ho chiesto a dente di raccontarmi al telefono il suo albergo dei ricordi. considerando la sua passione per i giochi di parole e l'inizio dell'estate, a questo giro ho preparato una breve "intervista enigmistica": al posto delle domande, siamo partiti da definizioni in stile cruciverba che, una volta risolte, hanno orientato la nostra chiacchierata. stop.
cominciamo. prima definizione: quando barbara fa la spesa compera: farina, acqua, lievito, sale, un chilo di affetti, un etto di marmellata.
(senza un attimo di esitazione) panella!
bravissimo - volevo partire da un autore che apprezzi molto per parlare del tuo rapporto con la scrittura e in particolare con i giochi di parole, che ti caratterizzano da sempre.
la passione per la scrittura è nata tanto tempo fa, da ragazzo, prima ancora di quella per la musica. considera che io ho cominciato a suonare tardi: non ho mai messo le mani su uno strumento fino ai vent’anni. all’inizio scrivevo della prosa molto breve, poi sono passato a delle piccole poesie. sono state proprio queste poesie a finire nei miei primi esperimenti musicali. erano dei veri esperimenti perché non andavo a lezione di chitarra: mettevo le dita a caso sul manico fino a quando non sentivo un suono che mi piacesse.
diciamo che all’inizio avevo un’idea molto punk della musica: quasi non volevo sapere quello che stavo facendo. dalle poesie sono quindi passato alle prime canzoni e da lì in poi nel 90 percento delle cose che ho fatto c’era questo desiderio di unire alle parole delle melodie.
e invece quando è nata la passione per panella?
anche quella da ragazzo. quando mi sono imbattuto negli "album bianchi" di battisti sono rimasto molto affascinato da quei testi di panella così evocativi, che non capivo - e che probabilmente continuo a non capire oggi - ma che in qualche modo mi emozionavano. un po’ sicuramente c'entra il talento di battisti, che sarebbe stato capace di costruire delle belle melodie anche con l’elenco del telefono. poi perché sono sempre stato molto appassionato del lato misterioso delle cose.
quando ascolto un testo che non capisco appieno, e so che potrei capire di più, mi attrae subito e mi incaponisco a cercarne il significato. quindi anche se il mio modo di scrivere è molto diverso da quello di panella, forse mi è venuta anche un po’ da lui questa mia voglia di nascondere dei significati dietro alle parole o alle frasi.
seconda definizione: lo è il mercato, ma lo è pure carmela.
(un secondo di silenzio) ... iper!
corretto! usiamo la canzone di de gregori per passare dal tuo rapporto con la scrittura a quello con la musica e in particolare con la figura del cantautore. tu ti ci rivedi in questa definizione?
io mi ci sono sempre rivisto nella parola cantautore. so che per qualcuno è aberrante e probabilmente è stato così anche per chi se l’è sentita cucire addosso quando è stata coniata - un po’ come per me è aberrante parlare dell’indie. a me invece cantautore piace perché la trovo una parola che sta esattamente a indicare quello che faccio, cioè cantare le canzoni che scrivo e scrivere le canzoni cucendole addosso ai miei pregi, ma soprattutto ai miei difetti.
perché in molti casi i cantautori non sono dei bravi interpreti, no? e quando si lanciano a fare delle cover non reggono così bene come quando fanno le loro cose. perché secondo me il cantautore è proprio quello che si cuce le canzoni addosso su misura. e infatti vale anche il contrario: quando gli altri cercano di fare le sue canzoni non vengono così bene come le originali. per dire: cantare le canzoni di lucio dalla è praticamente impossibile. solo lui era capace di farle in quel modo. e lo stesso vale per un de gregori o vasco rossi. una buona percentuale della riuscita di quelle canzoni sta nell’interpretazione.
pensi che oggi la figura del cantautore sia cambiata?
sì, credo stia un po’ cambiando, ma con delle sacche di resistenza. oggi le canzoni sono per la maggior parte scritte in gruppo: tre, quattro, cinque, sei persone. sembra che a chiunque metta un piede nello studio di registrazione poi si chieda un contributo da autore, anche se ha portato solo un caffè. questa scrittura a tavolino secondo me sta un po’ imbruttendo e impoverendo lo scenario.
pian piano ci sto cominciando a fare l’orecchio, tra l’altro. quando sento le canzoni ora capisco se sono state scritte in quel modo lì oppure no; da tot persone pagate da un editore per farlo oppure da una sola persona che veramente voleva scrivere quel brano. io sono un po’ della vecchia scuola e penso che le canzoni belle siano scritte quando si ha il bisogno o anche solo la voglia di dire una cosa. è un desiderio, più che un dovere, insomma.
terza definizione: le tende in disordine, a causa di irene.
le tende in disordine… le tende in disordine…
qua volevo fare come la settimana enigmistica. un aiutino: prova con un anagramma.
l’anagramma di tende… l’anagramma di tende…io tra l’altro sono scarsissimo con gli anagrammi perché faccio fatica a vedere le parole nella testa, però aspetta, aspetta questo ce l’ho: dente!
eccolo qua! dai, diciamo che questa risposta ti vale mezzo punto allora. parliamo di te e del cantare l’amore, a cui mi riferivo con la figura simbolica di irene, che citi nei tuoi primi dischi. qual è la tua ricetta per cantare la vita personale? è cambiato il modo in cui lo fai?
la ricetta non ce l’ho e se l’avessi forse continuerei a fare sempre le stesse cose. davvero non lo so, scrivo quello che mi viene naturale scrivere sempre. sicuramente ciò che noto sul cambiamento che ho fatto nella scrittura è che ai miei esordi ero più spavaldo. mi venivano delle frasi che adesso non mi vengono più e anzi mi chiedo come facessi prima. tipo, ora mi viene da pensare che ci vuole un bel coraggio ad aprire una canzone con “mi piacciono le ragazze con le doppie punte”. prima, frasi del genere mi venivano con naturalezza, non è che pensavo apposta a delle espressioni sghembe. per me era normale scrivere così e parlare in quel modo.
quindi sicuramente questa spavalderia l’ho un po’ persa e devo dire che in parte mi dispiace, ma magari tornerà, chi lo sa. vale lo stesso anche per i giochi di parole: non li uso più così tanto. da un lato, perché mi vengono di meno, ma anche perché credo che negli ultimi anni c’è stato un abuso dei calembour nella musica italiana che mi ha un po’ stancato.
quarta definizione: il ragazzo di penelope ha perso il senso dell’orientamento, ma la sua casa ce l’ha solo là.
…a itaca!
grande! pensavo ad itaca perché in un certo senso è sia meta che casa, due temi che vengono rievocati già nel titolo del tuo nuovo disco: “hotel souvenir”. come sei arrivato a questo concetto e quale è stata la genesi dell’album?
io di solito faccio così: scrivo delle canzoni, poi a un certo punto quando ne ho abbastanza cerco di metterle insieme per pubblicare un disco, scegliendo quelle che possono essere racchiuse in uno stesso contenitore. è stato così anche per questo nuovo contenitore a cui ho dato il nome di “hotel souvenir”, perché tutti questi brani mi davano l’idea di alcuni momenti precisi che ho vissuto, messi in musica.
quindi è come se fossero stati dei souvenir della mia vita che finalmente albergavano in un posto e non erano più sparsi in giro. e queste canzoni mi andava di metterle comode, in un hotel più che in una soffitta o uno scatolone, per darle la possibilità di guardare fuori dalla finestra e di uscire di casa. e non dico che l’idea di aver messo in ordine questi “souvenir” sia un aver fatto pace con i ricordi, ma comunque un non voler vivere più il passato con nostalgia. cosa che ho fatto fino a poco tempo fa e che per esempio si percepisce molto in un album come “l’almanacco del giorno prima”. l’idea, piuttosto, era di dialogare con questi ricordi più che perdersi dentro il passato o disperarsi per un tempo andato che non ritornerà più.
la nostalgia mi attira, ma ho capito che vivere nella nostalgia non fa bene. è meglio aprire un dialogo con il te stesso di prima, come fanno i due omini in copertina disegnati da andrea uncini, che si guardano da due piani differenti della realtà.
ultima definizione: quella di lucio e loredana perde i pezzi e non lo sa.
mmm, la macchina del tempo!
hai chiuso in bellezza: e allora usiamo questa citazione da “anima latina” per concludere il discorso che hai appena accennato e parlare di un concetto chiave del disco: il tempo e il dialogo tra il dente di ieri e quello di oggi, come emerge anche da tanti nomi dei brani (dieci anni fa, allegria del tempo che passa, un viaggio nel tempo…).
sì, questo del tempo e del dialogo con se stessi è un po’ il cuore del disco. per esempio, dieci anni fa si chiama così perché è una canzone che ho scritto dieci anni fa, ma ho ripreso in mano l’anno scorso per questo nuovo album.
era un pezzo che mi piaceva, ma qualcosa non mi tornava: aveva un ritornello che non mi convinceva. allora l’ho cambiato e nel cambiarlo ho scritto delle cose nuove che secondo me si incastravano benissimo con il resto della canzone, ma che dieci anni fa non avrei sicuramente potuto scrivere, perché dieci anni fa ero diverso da quello che sono adesso.
una volta finito il brano, mi sono reso conto che in fondo è come se avessi scritto una canzone con un me stesso che non c’era più, in una sorta di viaggio nel tempo e di dialogo con il me stesso del passato. è proprio questo dialogo il minimo comun denominatore delle canzoni di “hotel souvenir”. finire quella canzone in quel modo è stato per me anche un atto liberatorio. una rivelazione, più che la chiusura di un cerchio: un nuovo inizio.
mi piace questa idea di fermarci qui: con un nuovo inizio e con un punteggio di quattro e mezzo su cinque.
sono caduto solo sull’anagramma, hai visto! fare gli anagrammi al telefono è abbastanza difficile però, diciamo la verità.
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