foto via bawrut
centralini è grandi artisti e interviste (di solito) piccolissime. esatto: una scusa per parlare a telefono con le autrici e gli autori dei dischi che mi piacciono. e il giovane holden muto.
che cos’è la musica mediterranea? nell’arco degli ultimi quattro, cinque anni, credo di aver letto (e usato) tanto quest’espressione per descrivere una serie di dischi che mi piacciono molto - da “up and away” di Σtella alle varie uscite della early sounds recordings - ma che raccontano solo una parte della storia: quella più luminosa e romanticizzata, spesso legata al punto di vista dei soli paesi occidentali. ci sono invece pochi dubbi sul fatto che la visione del mediterraneo di bawrut - producer friulano di base a madrid - sia a 360 gradi.
se il precedente “in the middle” portava liberato, cosmo e chico blanco su un dancefloor a metà strada tra la spagna e le coste marocchine, “raqs” - il nuovo ep pubblicato lo scorso 26 luglio per la ransom note - mischia club music, maghreb e percussioni latine. in mezzo ai due dischi, un suo programma per radio raheem, arkipelagos, ha aggiunto altri tasselli preziosi al mosaico, mettendo in risalto artisti italiani e internazionali che hanno, in modi molto diversi tra loro, contribuito a espandere i confini di quel famoso sound mediterraneo.
considerando che sia nella produzione musicale che nel progetto radiofonico di bawrut traspare una passione per la ricerca e uno spiccato senso della curatela, ho pensato di formulare questa chiacchierata come se fosse una visita a un museo. ogni sala di questa ipotetica mostra è legata a un tema e un’opera d’arte, mentre a farci da guida nella galleria sono le risposte dell’artista. dimenticavo: l’ingresso è gratuito, il bagno è in fondo a destra, si possono fare le foto senza flash. stop.
[prima sala: foyer] prima di entrare nel vivo del nostro museo immaginario, cominciamo con la sala d’ingresso. questo è il momento in cui si legge il testo introduttivo della mostra prima di varcare la soglia della galleria. qui al posto dell’introduzione c’è una doppia immagine: le copertine dei tuoi ultimi dischi, “in the middle” (2021) e “raqs” (2023), ad opera di rocío mateos garcia. hai detto spesso che vorresti essere identificato per il tuo approccio più che per un suono in particolare. qual è l’approccio di bawrut? come si riflette quest’idea nelle grafiche degli album?
sia il mio immaginario estetico che musicale non è pulito. alcuni lo definiscono “organico”, perché c’è un elemento di vitalità, di caos. l’altro giorno ascoltavo matteo bordone e a un tratto lui tira fuori una citazione di james jamerson, grande bassista della motown, che mi ha steso: “the gunk keeps the funk” - la sporcizia tiene vivo il funk. jamerson non aveva molta cura dello strumento: non cambiava mai le corde perché credeva che così suonasse meglio. penso che non ci sia definizione più azzeccata di come intendo io la musica. fatta eccezione per quei generi che fanno della pulizia esagerata del suono un discorso di identità, tipo l’hyper pop, la minimal techno o la pc music, faccio fatica a sentire i dischi super prodotti, con i suoni così gommosi e cristallini.
quindi, per tornare al nostro ingresso del museo, quelle grafiche rappresentano la mia voglia di cogliere l’attualità attraverso una lente più organica, più “sporca”. una tendenza che adesso si vede molto, non solo in ambito musicale, è un’ossessione per le grafiche pulite. hai presente quelle immagini in 3d rasente il sentimento di “uncanny valley”? rocío, che è la mia compagna, in genere non è molto simpatizzante della tecnologia nel processo grafico, preferisce sempre avere un approccio più analogico. per “raqs” ha però provato a sperimentare con l’intelligenza artificiale e si è resa conto che poteva usarla per preparare dei bozzetti, risparmiando quel paio d’ore di ricerche su internet che di solito le servono per farsi un’idea prima di lavorare. una volta ottenuta un’immagine di base che la soddisfacesse, ha poi lavorato per capire come sviluppare quell’idea in un modo che riflettesse la mia visione. come per la grafica, anche nel tipo di musica che faccio io la tecnologia è fantastica, ma se lasciamo fare tutto a lei poi ci si ritrova davanti a un prodotto molto sterile: sono l’istinto e le scelte di pancia a fare la differenza.
[seconda sala: raqs e il dancefloor] “raqs” in arabo significa danzare. la prima opera della nostra galleria è il post con cui il café berlin club di madrid ha annunciato il release party del tuo nuovo disco. che ruolo ha avuto il dancefloor nella genesi del nuovo ep?
durante la pandemia ho sofferto molto il fatto che si è discusso di tanti aspetti fondamentali dell’industria musicale, ma pochissimo di un tema che per me è essenziale: l’importanza del ballo, l’idea di stare lì sul dancefloor, schiacciati tra la gente, a divertirsi, socializzare e passarsela bene. non ti dico i pianti liberatori che mi sono fatto quando poi, dopo il lockdown, ho ricominciato a suonare come dj e dopo il live dei chemical brothers al sonar come spettatore. è un aspetto che può essere percepito come frivolo, ma che in realtà è il centro della questione. la danza, come la musica, ruota intorno all’idea dello stare insieme, di condividere qualcosa. è un ponte verso l’altro, ci accomuna tutti e caratterizza da sempre con differenti funzioni. come quando david byrne in how music works fa riferimento ai villaggi africani dove si comunicava con il suono dei tamburi. la danza è groove e senza il groove non si va da nessuna parte.
questo discorso sul ballo, tra l’altro, lo portano avanti un bel po’ di persone. in italia sicuramente cosmo e c’è anche un libro molto bello al riguardo: il dio che danza di paolo pecere, che analizza tra italia, asia e africa i vari rituali di danza e l’aspetto del ballo come atto liberatorio per raggiungere uno stato di trance. poi tre, quattro anni fa ho scoperto con un ritardo clamoroso lo gnawa, una musica marocchina che unisce la struttura ritmica e circolare delle percussioni, il basso monocorde e la recita di mantra. il tutto in una cerimonia che dura dal tramonto all’alba. insomma, potremmo tranquillamente definirla come musica techno ante litteram.
è un peccato che il ruolo fondamentale del ballo e dell’unione attraverso la musica si siano annacquati e tutto sia concentrato sulla figura del dj come ruolo emblematico da osannare. la capacità oggettiva di essere bravi a selezionare la musica e capire la pista è fuori discussione, ma l’ego può fare brutti scherzi. oggi è tutto un mostrare quanto io sono bravo, io raggiungo obiettivi, io faccio ballare tante persone e non quanto noi stiamo bene assieme. triste.
[terza sala: raqs e la musica araba] ascoltando i tuoi dischi e il podcast che curi per radio raheem, arkipelagos, si capisce che la tua visione del mediterraneo è articolata e lontana dall’immagine da cartolina, spesso costruita dalle nazioni occidentali. penso al bel featuring con glitter55 o all’intervista con 3phaz. l'opera della terza sala, in equilibrio tra danza e cultura araba, allora non poteva che essere questa:
mi sembra che al momento ci sia una particolare attenzione per la musica araba. pitchfork un paio di mesi fa ha anche dedicato un lungo articolo al riguardo. ci voleva elyanna al coachella per smuovere un po’ di interesse per questo tema?
quando ho parlato con 3phaz lui diceva proprio questa cosa qui: l’idea che abbiamo noi occidentali del mediterraneo è completamente diversa - e molto più romanticizzata - da quella che ha, per esempio, chi vive nel nord africa. è importante rompere queste barriere, costruire dei ponti e trovare dei modi per avvicinarsi, per comunicare alla pari e influenzarsi a vicenda. mi viene allora da pensare a quale sia stato l’apporto di four tet alla musica di omar souleyman. secondo me zero. mi è sembrato il classico fenomeno in cui la stampa e i producer anglofoni scoprono un artista non occidentale e lo mettono sul piedistallo nel momento in cui il suo sound si sposa bene con il mercato inglese. è la musica del kebabbaro, ma adesso è cool perché ne parla bene resident advisor.
per quanto mi riguarda, invece, la musica più rappresentativa del mediterraneo ora viene dalla scena di produttori del maghreb e da quegli artisti di origine marocchina, algerina, tunisina o egiziana che sono nati in francia, belgio, ma anche italia e spagna - penso al primo ghali e morad - e che fanno una musica transazionale, che arriva a tutti, figli della diaspora e non, spesso mescolando musica pop occidentale con scale o pattern ritmici diversi e propri. e poi quanto è bello un cantato arabo con l’autotune?
approfitto che hai citato pitchfork per dire anche un’altra cosa: io ultimamente sto soffrendo molto l’idea che la musica che ci viene presentata come valida debba passare sempre dal grosso filtro dei media inglesi e americani. perché mi sembra che se l’interesse per un nuovo progetto non nasce da londra, bristol, new york o berlino di sponda poi allora ce ne si dimentica in fretta. se sei del sud africa devi avere il beneplacito del guardian, crack magazine o del new york times per definire la tua musica in un contesto globale. perché in giro i promoter e i booker dei festival internazionali leggono solo quella stampa lì, tralasciando il resto. è sicuramente un bel riconoscimento, ma non deve essere per forza l’unica maniera, altrimenti è una visione distorta.
tutto questo con il sacrosanto rispetto per la funzione centrale e fondamentale - anche per la mia formazione - che ha avuto e ha la musica e il giornalismo musicale in un paese come l’inghilterra. così come la voglia di fare ricerca e di usare un disco come punto di partenza per approfondire un discorso più ampio, che è a un livello completamente diverso rispetto all’italia o alla spagna. sono sicuro che se un disco come il mio lo avesse fatto bonobo, oggi staremmo leggendo molti più articoli sul sound mediterraneo.
[quarta sala: mediterraneo] a proposito di suono mediterraneo, dobbiamo per forza dedicare una sala del nostro museo a questo tema, sempre centrale nella tua produzione. in questo caso l’opera è uno screenshot dalla tua intervista con michelle davis sul sito della ransom note, in cui si vede anche una foto della tragedia di cutro. ho apprezzato molto il fatto che alla fine dell’articolo hai suggerito una bibliografia e volevo chiederti se avevi qualche nuova lettura da consigliare.
guarda, ho comprato da poco il numero di the passenger dedicato al mediterraneo e mi sta piacendo molto. tra l’altro è anche una lettura un po’ più leggera, perfetta per l’estate. poi c’è il ponte sulla drina di ivo andrić: un classico che sto leggendo ora e va a toccare un lato forse non propriamente “mediterraneo”, ma che comunque comprende la storia e i movimenti del lato più orientale di questo mare. un altro libro interessante al riguardo è il giocattolo del mondo di robert c. davis, edito dalla wetlands, dedicato al tema dell’overtourism a venezia. dà tanti spunti per riflettere su un discorso che ci riguarda da vicino. perché in molti campano su questa turistificazione, sull’estetica del posto placido con scorci incredibili, quando tragedie come quella di cutro portano allo scoperto il lato oscuro e di conflitto del mediterraneo.
dici lato oscuro del mediterraneo e penso subito a mai mai mai, artista che non a caso hai anche intervistato in un episodio di arkipelagos.
lui per esempio mi piace molto, perché ha un approccio musicale e una visione su questo tema che ha veramente un senso ed una originalità propria. mi ricorda in generale la musica che esce dai produttori palestinesi, residenti e non, fortemente influenzati dalla situazione invivibile nella quale sono costretti, il suono delle loro produzioni è sempre scuro, cupo e parecchio incazzato. come dargli torto. ecco, se dovessi scegliere due dischi esempio del mediterraneo, ti direi “el mal querer” di rosalía, per quanto riguarda l’aspetto più luminoso e colorato, e “rimorso” di mai mai mai, a ricordarci che il mediterraneo non è solo estate, mykonos, pasta e olio d’oliva, ma è anche scuro, è anche inverno e - purtroppo - naufragi. l’estetica mediterranea che viene venduta è puramente il sogno e il piacere di una vacanza d’estate su instagram, quando esistono altre tre stagioni, in luoghi senza copertura telefonica con soggetti che magari non tutti vogliono vedere.
[quinta sala: contaminazione] per la sala finale restiamo in ambito arkipelagos e interviste: quella che hai fatto con julien lesuisse dei crimi è la mia preferita del podcast e il loro disco “scuru cauru” è un trionfo di contaminazione. nella vostra chiacchierata si passa da francia, algeria e musica raï a gigi finizio e i neomelodici, il dialetto siciliano e quel curiosissimo strumento a fiato che è l’ewi.
arte e contaminazione mi sembra un tema tanto essenziale quanto complesso. penso alla fatica che si fa, anche tra chi è appassionato di musica, a mischiare cultura “alta” e “bassa”. o ai dibattiti su contaminazione e appropriazione culturale. tu che ne pensi?
purtroppo il contesto attuale della musica techno ed house - che è un po’ il mio ambito di riferimento - tranne alcuni casi secondo me è molto poco contaminato e pieno di artisti che tendono a fare un po’ tutti la stessa roba. il che è assurdo per un tipo di musica che - per dirla con una famosa frase di derrick may, uno dei pionieri del genere - è “george clinton ed i kraftwerk bloccati in un ascensore”: un cortocircuito totale. più in generale, credo che per arrivare alla contaminazione si deve passare per l’integrazione, dato che molto spesso il rifiuto verso l’altro deriva da stereotipi, dalla paura per ciò che non si conosce o è diverso da sé. che poi è un po’ il concetto alla base del podcast. il nome del programma viene fuori da una lezione di massimo cacciari in cui si parla del fallimento della cultura occidentale di incontrarsi con la cultura orientale del sud del mediterraneo. il concetto di arkipelagos è allora duale: in un arcipelago il mare ti difende e separa dal nuovo e dal diverso oppure è la superficie che ti permette di conoscere ed entrare in contatto con altre realtà. sta a te decidere.
l’integrazione è un processo difficile, che ha bisogno di moltissimo tempo, però sono convinto che gli artisti possono fare la loro parte per aiutare a superare queste barriere. la musica, come il cibo, ha la capacità di piacere alle persone spesso sorpassando pregiudizi e bias. al netto della diffidenza iniziale, se una cosa piace avrà successo. importante e bello per me è avere l’onore di trasmettere cose nuove a più persone e l’onere nel ricordare, nei contesti adeguati, influenze e figure chiave che mi hanno ispirato.
chiudo con una riflessione sull’appropriazione culturale: devo dire che fino a qualche anno fa ero più dogmatico e vedere ad esempio come la società spagnola tratta le persone gitane e allo stesso tempo considera il flamenco una parte importantissima della tradizione nazionale mi faceva veramente incazzare. poi però la storia della cultura e della musica è tutta una storia di continua “appropriazione”. la chiave, per me, è che se si studia, si fa ricerca e si ha rispetto per le cose che piacciono, allora non si può parlare di appropriazione culturale. perché la cultura non può e non deve avere passaporti.
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